(ACR) “BASILICATA COAST TO COAST”, COMUNITA' LUCANE E PROMOZIONE

“Basilicata coast to coast”, il film che Rocco Papaleo ha voluto dedicare con amore e taglio poetico alla Basilicata, ma in generale al Sud, sarà certamente apprezzato e promosso da circa un milione e 400 mila lucani emigrati e discendenti che vivono e lavorano in Italia e all’estero, anche per l’impegno promozionale del Maratea Film Festival.
Il film infatti sarà sostenuto anche dalle comunità lucane in Europa, in Nord America, in America Latina e in Australia con apposite iniziative.

“Non è un auspicio – sottolinea il presidente della Commissione regionale dei lucani all’estero, Pietro Simonetti – e neanche una speranza, ma una convinzione che deriva dalla visione dell’opera cinematografica che è stata realizzata con pochi mezzi, ma con grande professionalità. Viviamo in una fase contraddistinta, a partire dalla ricerca di scrittori e di registi, da un tentativo di approfondimento della situazione del Sud vista dal Sud e non solo. I recenti scritti di Antonio Pascale – continua Simonetti – con il bel libro “Qui dobbiamo fare qualcosa. Si, ma cosa?”, che incrocia il film di Papaleo e quello in uscita di Claudio Bisio “Benvenuti al Sud”, remake del film francese “Giù al Nord”, ricollocano il dibattito sulle prospettive del Mezzogiorno, e quindi della Basilicata, “qui ed ora”. La lettura ironica di Papaleo sulla “sindrome sconfittoriale” che attanaglierebbe la nostra regione e, in generale, il Sud, andrebbe presa in considerazione per affrontare in positivo i temi del superamento di una condizione, quella nostra, certamente diversa da quella di altre regioni meridionali dal punto di vista economico, sociale e produttivo. Geniale, artisticamente, è anche il ridimensionamento della saga sui briganti attraverso la trovata del brigante a cavallo che indossa un casco da motociclista. Luci ed ombre si stagliano con nitidezza e permettono di valutare quanto di positivo si è fatto negli ultimi anni, ma anche i limiti che si manifestano in Basilicata”.

“La metafora proposta da Papaleo, in verità – aggiunge il responsabile della Commissione, Pietro Simonetti – di un gruppo che parte dalla costa tirrenica per raggiungere la costa jonica e partecipare ad un festival e che arriva a festival concluso, è senz’altro corrispondente ad alcuni percorsi di generazioni praticamente non incluse nella possibilità di lavorare e di godere di una qualità della vita all’altezza dei bisogni. Il film di Papaleo, riteniamo, ci invita tutti a fare qualcosa: parafrasando il libro di Pascale, il problema è “cosa”. Ecco, questo è il compito che attende in particolare le nuove generazioni che forse potrebbero, a partire dalle esperienze del dopoguerra e degli anni ’60 e ’70, rimodulare e comunicare il loro impegno per lottare per una prospettiva diversa. La modalità di riflessione a partire da un film non è cosa nuova. “I basilischi”, di Lina Wertmuler, è una pellicola girata e ambientata in Basilicata. Documenta tra le altre cose un'epoca in cui l'industria cinematografica, e l'industria culturale più in generale, si apriva al sud profondo, documentandone la storia e la geografia. Da un lato predominava un interesse esotico per la diversità del sud rispetto all'Italia del boom economico – una diversità antropologica che significava anche la proposta di un'alternativa rispetto alla direttrice del progresso e del benessere borghese che andavano diffondendosi nelle zone più ricche del Paese; d'altra parte parlare del sud significava anche parlare appunto dell'Italia del boom scrutandola da un angolatura diversa, a partire cioè dalle zone in cui la povertà e l'arretratezza persistevano”.

L'immagine del Sud al cinema integrava così l'immagine dell'Italia e forniva una visione più attendibile delle contraddizioni del Paese. “Salvatore Giuliano” di Rosi spiegava che il fenomeno del banditismo poteva intrecciarsi con la grande politica, a sua volta legata alla bassa storia criminale e mafiosa; ancora Rosi, in “Le mani sulla città”, spiegava che la speculazione edilizia e il sacco di Napoli minuziosamente documentati non si limitavano a esistere come piccola cronaca locale ma potevano rappresentare un esempio del prezzo sociale e morale che tutto il paese pagava a una modernizzazione coatta; un tema che poi tornerà nell'opera di Petri, ad esempio; mentre gli aspetti drammatici dell'emigrazione coatta, dell'urbanizzazione, della mancata integrazione italiana si ritrovano nelle vicissitudini della famiglia lucana in “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti. Gli esempi potrebbero essere più numerosi, ma forse è più interessante notare che non solo il cinema di derivazione neorealista, nobilmente tragico, né solo quello di denuncia tradizionalmente inteso, quello militante, d'intervento, politicamente impegnato si sforzavano in quegli anni di documentare le ferite del sud; anche la commedia all'italiana, con toni più lievi, ma spesso con altrettanta rabbia, si volgeva nella stessa direzione. L'ipocrisia e il conservatorismo della società meridionale sono sarcasticamente ma apertamente stigmatizzate in film come ad esempio “Divorzio all'italiana” (così come la provincia del nord più marcia e bigotta viene smascherata in opere come “Signore e signori”). Ma anche in commedie più o meno coeve che apparentemente non hanno nulla a che fare col Sud, troviamo in realtà un pezzettino di meridione, come un ingrediente che non può mancare in un affresco sociale che voglia dirsi completo e coerente. Tiberio Murgia, siciliano, o Totò, napoletano, nei “Soliti ignoti” di Monicelli, ad esempio, come esempi affettuosamente presi in giro di (rispettivamente) maschilismo arcaizzante e cultura dell'illegalità.

“Il film di Papaleo – è la conclusione di Simonetti – credo che vada visto, pur con differenze e spessori diversi, in questa compagnia. Accanto alle opere migliori di Risi, di Monicelli, di Scola, di Germi, anche al Fellini dei “Vitelloni”; e cioè dalla parte di quella commedia italiana che, dagli anni Cinquanta fino ai primi anni Settanta, è riuscita a raccontare un'epoca e un Paese in modo non solo divertente e leggero, ma anche molto convincente, e spesso profondo. Perché convincente, e perché profondo? Io credo che la ragione stia soprattutto nel giusto equilibrio, trovato da questa generazione di cineasti in quel particolare momento storico, tra fedeltà al reale, rabbia e divertimento. La grande arte si regge spesso sulla capacità di creare ambivalenze, estetiche e morali. Questo cinema, questa commedia sa provare odio e disprezzo per le peggiori maschere del carattere nazionale, ma non perde mai la capacità di amare quelle sacche di umanità che fioriscono anche nelle macerie morali; è un cinema che sa mordere, ma anche ridere – magari nichilisticamente – delle debolezze dei suoi personaggi, come è giusto che sia, perché questa è la giusta misura artistica in una fase di grandi migrazioni nel nord Italia e all’estero. Un flusso enorme alla ricerca di lavoro e di una diversa condizione umana e materiale. Riflettere e pensare:per sfuggire,come diceva un amico mio,alla nostalgia per il futuro e abitare il presente lottando per un futuro diverso”.

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