Ma chi ha detto che la poesia non richiama l'interesse della gente? A giudicare da quanto accaduto ieri sera al Teatro Stabile di Potenza, si tratta di un convincimento azzardato. Si presentava la prima raccolta di poesie di Francesco Potenza, pubblicista, avvocato, e autore di versi di grande forza, che riescono a tenere insieme modernità (a cominciare dai ritmi popolari dei cantautori) a riferimenti colti. Il volume si intitola «Sotto la luna che capita» (ErreciEdizioni) ed è stato il protagonista di una serata molto raccontata, promossa nell'ambito delle iniziative Città Cultura del Comune, con le testimonianze del giornalista (e soprattutto amico di Potenza), Rocco Pezzano, della filologa Maria Teresa Imbriani, con la giornalista Antonella Pallante, nel ruolo di moderatrice, con i recitativi di Isabella Urbano e gli interventi musicali di Filippo Nigro.
La poesia di Potenza è un concentrato di visioni che esprimono lampi di emozioni, fermano il tempo, cercano un senso e un significato che sta dentro le cose, frigando fra le cose. Nei ricordi e nelle emozioni che gli hanno lasciato gli incontri, gli addii. I tanti cammini che segnano il tempo che ci è concesso («E sei nel tempo mio / a scandire il sole / con il profumo / intenso della viola. / Sei la mia faccia migliore / nella pioggia»). E le voci disperate che cercano di trovare ascolto dentro le ordinarie solitudini («Amore mio, / ti chiamo dalla guerra quotidiana, / che c'è un bel tramonto»). E si intravedono i debiti e le riconoscenze fra le pieghe dei versi. Come quelli dedicati al padre («Padre un sorriso ti basta / solo / perché un giorno abbia un senso») o alla nonna Emma nella cui casa, fra «una vecchia scala sgangherata, / un cestino di frutta finta, / un pinocchio di legno snodabile, una scatola di stecchini riciclati / un violino scordato / appeso alla parete, / un orologio a pendolo / immobile alle sette, / un tappeto di lana appassita, / una campana che scocca le ore sorde, / la capanna con Gesù Bambino, / le pecore, / due pastori», Francesco ritrova la sua vera «grotta di Natale». O forse semplicemente le meraviglia della sua infanzia.
Francesco Potenza ha infilato nella sua prima raccolta poetica questi suoi stupori. Con le malinconie dissimulate talvolta da ironie lievi, altre volte dai richiami simbolici della natura («t’accorgi che sei / la foglia / caduta»). Ci sono percorsi interiori («s’è fatta notte dentro / e, per guardarti, / ho teso le mie dita al davanzale»). Ci sono folgorazioni («Ho un amico minatore / che insegue le stelle / sottoterra / ed una chiromante / che legge nei fondi del caffè. / E so / d’una sgualdrina / che bacia / ad occhi chiusi»). Ci sono colori («Io ti amo / e se non basta / pensa il mare / e le sue viole nell'alba. / Pensa le navi / perdute all'attracco / sotto la luna che capita»). Francesco Potenza, che aveva deciso di non imprimere nessuna dedica particolare sulle pagine stampate del libro, ieri sera ha avuto un ripensamento. E ha sottolineato il debito che questa sua scrittura poetica ha avuto verso nonna Emma e verso sua madre («mi ha ha fatto scoprire il fascino della poesia facendomi leggere Evtushenko»). Ma poi ha voluto aggiungere un poeta. Un giovane poeta lucano che ha vissuto poco e se n'è andato troppo presto, ma lasciandoci impresse poesie di grande intensità. Si chiamava Carmine Mario Gioia.
(A.S.-BAS01)